Benvenuti
a Forlì, la città dove, come lasciava intendere il generale Dalla Chiesa, non
succede mai niente (rispetto alla turbolenta e sanguinaria Palermo di inizio
anni ’80). Di certo Dalla Chiesa non poteva prevedere l’assassinio di marca
brigatista di Ruffilli (avvenuto sei anni dopo la sua morte): ma forse i
forlivesi, romagnoli un po’ meno “bizantini” dei ravennati, non desiderano
niente di diverso da questo quieto vivere di provincia: e comunque la storia insegna che la tranquillità quasi
sempre è la ricompensa per aver superato, con coraggio, molte esperienze
tragiche e dolorose. Questo vale per parecchie delle città del nord Italia che,
proprio come Forlì, furono direttamente coinvolte nell’orrore dell’ultima
guerra civile italiana. Pietre miliari della memoria storica del capoluogo fondato
nel 188 a.C. da Gaio Livio Salinatore (Forlì è una contrazione di Forum Livii) rimarranno per sempre due momenti del 1944: la
strage di settembre all’aeroporto, quella in cui i tedeschi uccisero più di
quaranta persone e ferirono nel profondo l’anima filo-semita della città, e il
bombardamento nazista di dicembre, condotto con le devastanti bombe a sviluppo
esplosivo orizzontale testate per la prima volta proprio su Forlì.
Prima
di allora gli unici punti veramente critici della storia forlivese, a parte le
inondazioni e le invasioni barbariche, era stato la crociata del cardinale Albornoz
e le dure repressioni del 1831 operate dalle truppe pontificie: ma la Forlì
apparentemente sonnacchiosa di oggi è
l’erede della città sgomenta ma mai disperante di settant’anni fa. Quella che
si trovò a che fare con la ricostruzione di molta della sua arte, in primis la
chiesa di San Biagio, il quattrocentesco forziere dell’Immacolata
concezione di Guido Reni, e l’abbazia-basilica di San Mercuriale, il
monumento religioso più antico della città, risalente all’894. Il vero cuore
del cattolicesimo forlivese non poteva non custodire, accanto a opere di grandi
artisti forestieri come il maestro dei mesi di Ferrara e Francesco di Simone
Ferrucci da Fiesole, anche quelle di grandi firme locali: parliamo nello
specifico di Marco Palmezzano (1459-1539), l’esponente principale della
cosiddetta scuola pittorica cittadina insieme al grande Melozzo da Forlì (1438-1494),
maestro del primo e trait d’union tra Mantegna e Piero della Francesca nel
campo della tecnica prospettica. Le
tracce della sua grandezza nella città romagnola sono visibili nella Pinacoteca
civica, ala dei Musei San Domenico. La scuola forlivese, i cui pionieri furono due
discepoli di Giotto, Guglielmo degli Organi e Baldassare Carrari, si ritiene
fondata a tutti gli effetti da Ansuino da Forlì, maestro di Melozzo e
collaboratore di Filippo Lippi a Padova: ha avuto epigoni almeno fino al XIX
secolo (ricordiamo Giacomo Zampa), dopodiché, con la sua “estinzione”, non è
certo finita la storia pittorica di Forlì. Nel ‘900, anzi, la grande scuola
rinascimentale ha trovato un erede nel Cenacolo artistico Forlivese, aperto,
però, sia agli artisti di Forlì che a quelli di fuori. La stagione del Cenacolo si chiuse
bruscamente con l’avvento del regime fascista, nel 1930, ma, nel dopoguerra,
molti dei suoi esponenti continuarono comunque a dominare la scena artistica
cittadina almeno fino agli anni ’80. Nel
frattempo si stavano o si erano affacciate alle tele e ai pennelli altre
generazioni che con la guerra e il fascismo non avevano avuto niente a che
fare, e altre ancora continuano ad affacciarsi, il che garantisce un ricambio ininterrotto ad una secolare
tradizione; questo compensa almeno in parte l’inesorabile
declino
del concetto associazionale, a tutto vantaggio delle realtà indipendenti e non
allineate. Tra le nuovissime leve della
pittura forlivese abbiamo avuto il
piacere di conoscere, durante il nostro giro in città, Michela Fabbri, maestra
d’arte diplomata nel locale liceo artistico e in seguito perfezionatasi all’Accademia
Romagna. È una specialista dei ritratti con pathos, e ha
già all’attivo alcune interessanti esposizioni, a Forlì e nel Forlivese. La sua
“Rinascita” sembra risentire della lezione metafisica, la “Dama rossa” sembra
un soggetto alla de Lempicka visto di spalle, in alcuni acquerelli mi è
sembrato di rivedere Rabarama e i suoi amplessi. E
pensare che i percorsi della vita stavano cercando di allontanarla dalla sua
passione; ma lei l’ha ripresa per i capelli, con una volontà di ferro. Nella
sua arte c’è una parola chiave: sfumare. E
capirete perché.
Michela, iniziamo dalla carta d’identità: Fabbri è un cognome
diffusissimo nell’area romagnola, e a Forlì e nel Forlivese è sinonimo di
grandi artisti come Giovanni Fabbri o Pier Angelo Fabbri. La tua passione per
l’arte è personale e autonoma o deriva da influenze familiari?
Be’,
in realtà, a dispetto del cognome, sono la prima artista della mia famiglia. Il
babbo è un ex ciclista e la mamma è un’insegnante di scienze. Nessuno, prima di me, ha avuto a che fare con
pennelli e tavolozze: in effetti per il mio ramo Fabbri posso considerarmi una pioniera del mestiere.
Per te l’arte è una fuga dalla realtà e la frase che più ti
caratterizza è: “l’artista è ciò che non potrà mai essere”. Ci si può vedere
forse anche un riflesso del fatto che per molto tempo non ti sei potuta
dedicare completamente e ufficialmente alla pittura, come magari avresti voluto?
Esattamente,
e questo a discapito di una frequentazione dell’arte iniziata prestissimo.
Pensa soltanto che, in prima elementare, le lettere dell’alfabeto non mi
piaceva solo scriverle, ma anche decorarle con ricciolini e ghirigori. “Ma tu
non devi imparare a fare una bella lettera, devi imparare a scriverla!”, mi
dicevano le maestre. Appena avevo un minuto di tempo, poi, mi buttavo a capofitto
in un blocco di fogli bianchi e, più colore ci mettevo, più mi divertivo. In seguito però ho compiuto studi molto
lontani da un percorso artistico: ho fatto lo Scientifico, ho fatto Economia
all’università, e ho dovuto riprendere la strada maestra che portava alla
pittura sacrificando anche del tempo: parlo delle ore spese ai corsi serali del
Liceo artistico di Forlì, un cammino impervio e non proprio comodissimo che
comunque mi ha consentito di rimettermi in pari con le esigenze del mio
spirito.
Si può definire la tua un’ “arte sensuale”, fatta di corpi nudi che spesso
si trovano, anche se non sempre il loro incontro è necessariamente carnale?
Sì,
l’unione, pur essendo carnale, tende sempre
allo spirituale. Questo riflette la mia continua ricerca di affetto. Che spesso
ho trovato più negli animali che negli uomini. Ma adoro disegnare i corpi umani
anche sulla scia dei miei venerati maestri classici: Michelangelo e Caravaggio
in primis. Per quanto riguarda i moderni, tra i miei preferiti c’è invece
Kandinskij.
I tuoi acquerelli sono molto istintivi, emozionali, quasi primitivi.
Nei ritratti ad olio, invece, c’è una maggiore compostezza figurativa: stati
d’animo diversi o tecniche precise applicate in ciascun campo?
Mi
sono “convertita” decisamente all’acquerello da non molto tempo, circa un anno
fa, dopo un viaggio in montagna (Michela adora
le Dolomiti, dove si ricarica spiritualmente, ndr),
al culmine di un’esperienza personale non positivissima. Ma sono nata con
l’olio proprio per acquisire le basi della tecnica ritrattistica e
riproduttiva: tuttavia la troppa perfezione formale richiesta dall’olio, pur
essenziale, non mi soddisfa in pieno e limita la mia vera creatività. Ecco
perché la scoperta (o la riscoperta prepotente) dell’acquerello in un certo senso
è stata la mia svolta, la mia liberazione: in fondo io credo che il cuore della
pittura non sia la forma ma il colore, e credo anche che lo si debba far
esplodere non a svantaggio della figura, ma proprio per esaltarla. E la
sfumatura e la sbavatura acquerellate sono uno dei modi tecnicamente più
significativi di realizzare quest’esplosione.
In generale, qual è la tecnica che prediligi? E il supporto?
Be’,
direi proprio l’acquerello. In fondo anche da piccola, quando pasticciavo con i
pastelli, ciò che mi piaceva era proprio la possibilità di produrre quelle
sfumature che poi avrei scoperto essere tipiche dell’acquerello. Ed ecco anche
perché non ho mai amato particolarmente i pennarelli.
Quanto
al supporto, al momento il mio materiale preferito è la carta di cotone.
Che cos’è per te la fantasia?
Un
groviglio di sfumature di tre colori: giallo, rosa e blu (con tutte le loro
sfumature). Si
tratta della triade cromatica che riassume il mondo di emozioni della mia
infanzia, e che associo all’idea di allegria.
E l’ispirazione creativa, come
la definiresti?
Credo
sia l’esperienza di un’emozione, che non dev’essere per forza straordinaria e
fuori dal comune, ma quasi sempre affonda nella vita quotidiana e nella realtà
delle piccole cose.
Il tuo colore preferito (nella vita e sulla tavolozza)?
Il
turchese e l’azzurro. La ragione è che… adoro guardare il cielo, il mio
orizzonte di raccoglimento e di serenità: devo dire, però, che non è il cielo
limpido quello che mi fa impazzire, ma il cielo… chiazzato di nuvole!
Nel tuo curriculum subito un’esposizione prestigiosa, al Maf di Forlì: poi
Forlìfiera, altro agone non indifferente, e Cervia, dove esponi spesso (proprio
poche ore dopo l’intervista, Michela sarebbe stata impegnata a Cervia con
l’inaugurazione della mostra “Anime senza voce”, ndr). Che cosa sente un artista prima di ogni mostra?
Parlo
per me: è la paura della noia, se devo essere sincera. Mi mette a disagio
vedere la maggior parte dei visitatori
passeggiare davanti ai quadri con indifferenza, ma mi fanno sentire ancora
peggio le persone che si mostrano interessate ma per fare domande spiazzanti,
tipo “Che cosa rappresenta quel quadro?”.
Non mi faccio illusioni: so che, a differenza di altri Paesi, in Italia
l’arte non gode di un interesse di massa molto acceso. Al di là di tutto,
comunque, per me una mostra resta un momento fondamentale soprattutto come
occasione di confronto con altri artisti. E poi, non potrò mai dimenticare le
emozioni che mi ha dato la prima mostra che ho fatto, al Maf (Mondial Art Free,
ndr), e di certo non potrei fare a meno
di quel senso di avventura che mi procura improvvisare un’esposizione in luoghi
improbabili, grazie alla benevolenza e alla disponibilità degli amici o di
persone che vogliono darti una possibilità.
A differenza che nella pittura, invece, purtroppo non
esiste una vera e propria scuola scultorea forlivese: basti pensare ai quattro
simboli statuari della città. Parliamo, innanzitutto, della statua della
Madonna del Fuoco, in cima alla colonna vicino alla Cattedrale di Santa Croce,
opera del ‘600 del veneziano Clemente Molli; e poi del monumento al mazziniano
Aurelio Saffi nell’omonima, centralissima piazza (la stessa dove si affaccia
San Mercuriale): inaugurata nel 1921, è opera dello scultore napoletano Filippo
Cifariello, lo stesso del monumento equestre a Umberto I a Bari. E il discorso non cambia per i due monumenti
di piazzale della Vittoria. Quello ai Caduti o alla Vittoria (1932) è stato
progettato da un architetto romano, Cesare Bazzani; i bassorilievi sono di Bernardino
Boifava, uno scultore originario del Bresciano (Ghedi), e il gruppo bronzeo in
cima alla colonna –tre Vittorie alate – è opera del carrarese Bernardo
Morescalchi. Originario dell’Abruzzo era
invece Francesco Saverio Palozzi, autore del colosso di Icaro che dal 1940 sta
davanti al Palazzo dell’ex collegio aeronautico. Si deve poi allo scalpello di
un livornese, Salvino Salvini, il monumento all’anatomista Morgagni nell’omonima
piazza, inaugurato nel 1931, mentre è cesenate la mano del gruppo bronzeo
dedicato alle madri dei dispersi in guerra nel parco Franco Agosto: quella di
Leonardo Lucchi. Sempre nel parco Agosto si deve ad un altro vicino di casa dei
forlivesi, il ravennate Giannantonio Bucci, la statua di Carnera della fine
degli anni ‘80. Di Pesaro era poi Gianni Cinciarini, autore del monumento al
Carabiniere posto nel 2004 ai giardini Orselli. Addirittura dalla Bulgaria,
poi, viene l’artista del monumento ai caduti Sikh della II guerra mondiale,
posto dal 2011 di fronte al cimitero. Questo
è, dunque il panorama: eppure nutriamo fiducia che le nuove generazioni possano
essere protagoniste di un rinascimento forlivese prossimo venturo anche nel
campo delle arti plastiche.